Category: Comunicazione

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Nuov modelli di apprendimento per una formazione medica utile: tra l’evidence-based medicine e la real life con il Prof. Roberto Caporali

ottobre 5, 2022by Nicoletta VialiComunicazione

La definizione di David L. Sackett, che con Archibald Cochrane è stato uno dei ‘padri’ della EBM, è la seguente:

“l’integrazione delle migliori prove di efficacia clinica con l’esperienza e l’abilità del medico ed i valori del Paziente”.

L’Evidence Based Medicine (EBM), quindi, è la medicina basata sulle prove di efficacia. Permette al medico di integrare la propria esperienza sul campo, le migliori prove di efficacia clinica e le preferenze, secondo i propri valori, dei suoi pazienti.

Da quanto esposto, è chiaro che i concetti chiave della EBM, la ‘medicina fondata sulle prove’, sono tre:

  1. L’integrazione delle migliori ‘prove di efficacia clinica;
  2. L’esperienza e l’abilità del medico;
  3. I ‘valori del paziente’.

Il paziente, quindi, riveste un ruolo fondamentale e deve essere informato non solo sul perché gli vengono consigliati determinati esami e perché gli viene prescritta una certa cura. Il paziente, infatti, dev’essere edotto sul fatto che la cultura e la logica che stanno dietro alla sua terapia non sono casuali ma basano su dati di ricerca scientifica rigorosa applicati ad hoc, per ogni singola persona.

Proprio per ottemperare al meglio ai principi della EBM, negli ultimi anni, ha assunto sempre più rilevanza la Real Life, ovvero l’attenta osservazione dei dati provenienti dalle cartelle cliniche di pazienti reali. Questi dati vengono inseriti in grandi database definiti ‘Registri’ che raccolgono così informazioni di un gran numero di casi trattati anche per periodi molto lunghi.

Questa moderna visione che prende origine dalla Evidence Based Medicine e dalla Real Life richiede sicuramente che i medici possano basare la loro preparazione su nuovi modelli di apprendimento che permettano loro di seguire i pazienti al meglio, rispettandone la loro unicità.

Evidence Based Medicine e la Real Life: l’intervista al Prof. Caporali

Ne parliamo con il Prof. Roberto Caporali, Direttore del Dipartimento di Reumatologia e Scienze Mediche del Gaetano Pini – CTO e Ordinario di Reumatologia, Università degli Studi di Milano.

Prof. Caporali, qual è lo stato dell’arte oggi sull’applicazione della Evidence Based Medicine e la Real Life in Italia?

“Negli ultimi anni si sono fatti decisi passi avanti nell’applicazione dell’EBM, nella comunicazione ai pazienti e nelle scelte condivise con il paziente. Sono presenti, a livello nazionale, raccomandazioni diagnostico-terapeutiche sviluppate secondo i criteri dell’EBM su molte patologie che possono fornire importanti informazioni ai medici ed ai pazienti. Tuttavia, molto deve ancora essere fatto nella raccolta dati provenienti dalla Real-Life per poter avere informazioni precise su un elevato numero di pazienti e su efficacia e sicurezza dei diversi trattamenti”.

Quali sono i nuovi modelli di apprendimento che permettono una formazione medica utile?

“Sono davvero molti i modelli di apprendimento e vanno dalla classica lezione magistrale sino ai progetti di formazione sul campo. Questi ultimi permettono un approfondimento importante di tematiche specifiche uscendo dalla logica della ‘lezione’ e passando, invece, al confronto su casi reali”.

Real Life e GISEA

Uno dei registri cui facevamo riferimento per la Real Life è tenuto dal Gruppo Italiano Studio Early Arthritis, in acronimo GISEA, vuole parlarcene?

“ Il Gisea è un gruppo di studio italiano che da anni si occupa di raccogliere dati relativi ai pazienti con patologie reumatologiche croniche immunomediate trattati con farmaci biotecnologici. Lo studio di questi dati, che provengono da diverse parti d’Italia, ha permesso e permette di valutare appieno efficacia e sicurezza dei trattamenti. Il registro collabora attivamente con altri registri europei, permettendo così analisi di un numero davvero molto elevato di pazienti e con indicazioni molto circostanziate relative ai farmaci, alla loro efficacia e ad eventuali problemi di sicurezza”.

In definitiva, è proprio questo un modello virtuoso che consente di perfezionare i percorsi di cura basandosi, da un lato sulle evidenze e, dall’altro, indagando, monitorando, osservando i pazienti nel loro reale vissuto di malattia. Quindi, rilevando dati reali sull’attività della malattia e sulla risposta alla terapia, con un controllo stretto e continuo per rendere la cura sempre più adeguata ed efficace.

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Comunicare per curare

agosto 30, 2022by Nicoletta VialiComunicazione

Qual è lo strumento di cura, non farmacologico, più potente che ci sia? La comunicazione efficace!

Comunicare, in effetti, non è solo trasmettere delle informazioni ma si realizza entrando in contatto con l’altro con il preciso intento di creare con esso una relazione.

La comunicazione efficace è quella in cui i tre livelli della comunicazione sono in armonia:

  • la comunicazione verbale è solo una minima parte dell’atto del comunicare e la si realizza tramite le parole, il linguaggio, i contenuti (7%).
  • il canale paraverbale che si esprime con la voce, il tono, la velocità, le pause, l’inflessione, il ritmo e la velocità (38%).
  • il canale non verbale o linguaggio del corpo che racchiude quei componenti della comunicazione che si trasmettono con lo sguardo, i gesti, la postura (55%).

Occorre precisare che le percentuali sopra riportate sono poco indicative ed assumono una maggiore significatività, nel caso in cui intervengono le emozioni e quando si registra una incongruenza tra “cosa diciamo e come lo diciamo”. (Albert Mehrabian)

 

Comunicare efficacemente per creare una relazione

Un medico comunica efficacemente con una paziente, mantenendo il contatto visivo. L'ascolto attivo consente di conoscere non solo il contesto in cui si evidenzia la malattia ma, a volte, anche da dove trae origine.
Un medico attento comunica efficacemente con una paziente, mantenendo il contatto visivo.

È evidente che, oggi più che mai, medici ed operatori sanitari, sono tenuti ad acquisire nuove competenze comunicative per poter dialogare e realizzare una relazione di fiducia con i propri pazienti.

Per realizzare una comunicazione efficace, occorre innanzi tutto, saper ascoltare dedicandosi pienamente all’altro per raccogliere, percepire e capire i suoi bisogni reali ed inespressi.

In questo ascolto attivo, la narrazione ha un ruolo straordinario che consente di conoscere non solo  il contesto in cui si evidenzia la malattia ma, a volte, anche da dove trae origine.

La narrazione descrive la malattia, il disagio all’interno del percorso di vita e l’ascolto, profondo ed attento, ci fa leggere spesso la trama nascosta nel racconto dell’altro. Nella prima fase dell’ascolto c’è il momento governato dagli aspetti emozionali, poi segue quello fattuale, dove gli aspetti concreti, i fatti, prevalgono. Nella fase successiva si realizza il momento dell’ascolto empatico, dove ci si compenetra nell’altro. La fase finale è quella generativa, ovvero quella fase dalla quale nasce il frutto dell’integrazione tra chi comunica ed è proprio da qui che inizia il “cammino insieme” verso un obiettivo comune.

Questo, di per sé, rappresenta un presupposto per migliorare l’audit, per raccogliere quegli elementi che contribuiscono a capire i motivi, le ragioni, le cause e tutto ciò che può essere alla base di un disagio, di una malattia, aiutandoci a migliorare il processo di cura.

 

Comunicare con le domande

Un medico abile nella comunicazione pone domande domande giuste, nel modo giusto, al momento giusto. La domanda è uno degli strumenti più potenti a disposizione del medico nella comunicazione con il paziente.
Un medico abile nella comunicazione pone domande domande giuste, nel modo giusto, al momento giusto.

Un altro elemento fondamentale risiede nella capacità di porre le domande giuste, nel modo giusto, al momento giusto. Le domande sono la chiave di ingresso nelcervello e nell’anima dell’altro.

Le domande consentono di scoprire bisogni ed opportunità e si possono porre in modalità “chiusa” che richiedono risposte brevi (es. : si oppure no),  o “aperta” e queste invitano l’altro ad esprimersi, ad esporre la sua posizione in merito al quesito posto.

Esistono diverse tipologie di domande, ci sono quelle diagnostiche, quelle strategiche, quelle empiriche, creative, di missione. Ognuna può aiutare a comprendere e ad innescare nell’altro un pensiero, una decisione, un’azione e facilitare la comprensione di ciò che spesso viene celato, nascosto e lasciato lì, nel profondo dell’ incomprensione che genera solitudine.

La comunicazione tra medico e paziente è un tipo di comunicazione asimmetrica. Non vi è simmetria tra chi soffre e versa in condizioni psicofisiche precarie rispetto a chi, dall’alto di una condizione di forza, derivante dal sapere e dal potere della funzione salvifica del curante, si accinge ad alleviare le pene dell’altro. Lo sforzo per ridurre questa asimmetria deve iniziare dal medico; occorre abbandonare le posizioni di potere derivanti dal sapere medico ed intraprendere un nuovo cammino verso un’alleanza sia diagnostica, sia terapeutica con il paziente.

Quella appena descritta, è una strada che accorcia le distanze tra medico e paziente ed è un metodo che rinuncia alle gerarchie di potere basate sul sapere per raggiungere insieme un nuovo modo di curare, che non combatte la malattia ma cura la persona.

Articolo a cura di Rosario Gagliardi

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Il valore della vulnerabilità ai tempi del Covid-19

aprile 27, 2020by Rosario GagliardiComunicazioneCoronavirusManagement Socio SanitarioNews


È giusto torturare una persona per scoprire un attentato? Fare esperimenti letali su un uomo per salvare le generazioni future? O clonare una persona per curarne altre? Uccidere un innocente per risparmiarne cento? Scegliere un giovane rispetto ad un anziano fragile per un posto in terapia intensiva?


A simili problemi l’utilitarismo consequenzialista risponde affermativamente, mentre il deontologismo e l’etica delle virtù danno una risposta negativa perché considerano tali atti intrinsecamente malvagi. A volte ti imbatti (e ti sembra un caso, ma forse non lo è) nelle cose che stai cercando. Infatti, qualche giorno fa mi sono imbattuto in un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, molto ben fatto, di Vittorio Pelligra (Professore Associato – Dipartimento di Scienze Economiche ed Aziendali – Università di Cagliari) e sono rimasto colpito da alcune considerazioni, riportate come provocazioni illuminanti.


A mo’ di esempio vi riporto la stridente contrapposizione di alcune affermazioni (parafrasate), che ci fanno riflettere sui danni prodotti ed ancora diffusi, di un certo tipo di utilitarismo contrapposto all’esigenza di un ripensamento radicale rispetto ad una nuova progettazione del vivere comune e della vita sociale.


“Sottrarre reddito ad una persona disabile per trasferirlo ad una sana in tutti quei casi in cui questa avesse maggiori capacità di trasformare quel reddito in felicità, più di quanto non possa fare la persona disabile, magari proprio a causa della sua disabilità, questo potrebbe essere un modo per aumentare la felicità globale”…e ancora: “Se le azioni vanno giudicate in base all’utilità prodotta dalle loro conseguenze, sarà lecito far morire cento persone per salvare la vita a cento e una?”


Per contro:


“la felicità che otterrebbe un povero da un incremento del reddito è maggiore della perdita di felicità che sperimenterebbe un ricco, a seguito di una equivalente riduzione del reddito”. Aggiungo: “prestarsi alla cura, al soccorso dell’altro, riparandone la fragilità ed utilizzando proprio la vulnerabilità, come opportunità per innalzarsi dal punto di vista umano, può rappresentare il modo per incidere con forza su un ulteriore slancio evolutivo che ci avvicini al Dio?”


La prima frase ci riporta all’evenienza sfiorata (?) in piena emergenza Covid 19, di dover decidere, in mancanza di respiratori e di posti in terapia intensiva, a chi concedere l’accesso alle cure, chi preferire: la persona più anziana con impegno di salute già compromesso? Quella con disabilità? Oppure un giovane senza compromissioni e con maggiore possibilità di farcela e successivamente di essere più produttivo ed utile alla società?

Queste riflessioni ci riportano al concetto di vulnerabilità, che spesso è vissuto come una condizione di svantaggio e di inadeguatezza che non trova un riconoscimento egualitario all’interno dello schema sociale. Almeno come viene vissuto da alcune persone.


Dalla vulnerabilità dei disabili, degli anziani, dei pazienti, alla vulnerabilità dell’uomo


Chi è vulnerabile, fragile, deve lottare anche con il mondo circostante incurante delle sue esigenze. Spesso una persona invalida, disabile, un anziano, viene quasi considerata un peso per la società che non ne capisce e non ne rispetta le difficoltà. Vi siete mai chiesti se per caso sono proprio le persone fragili a cui dovrebbe essere rivolta la massima attenzione e cura? Vi è mai passato per la mente che un giovane ha più probabilità di farcela rispetto ad un anziano o ad un paziente fragile e per questo è già in vantaggio rispetto alla possibilità di vita? Vi siete mai chiesti se il diritto alla vita va distribuito in relazione alla “forza e al benessere” di cui si gode?


La società è indietro rispetto a certi temi. In Italia vivono circa 4,5 milioni di disabili, di cui oltre un terzo vive da solo. Il numero cresce se si aggiungono persone affette da malattie croniche e rare, invalidanti. Secondo quanto riporta l’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, le condizioni di vita dei disabili italiani non sono tra le migliori: supportati da pochi servizi, assistenza quasi interamente sulle spalle delle famiglie sempre più in difficoltà, livello di istruzione mediamente più basso e grandi ostacoli nel riuscire ad avere un lavoro rispetto alla popolazione generale. Quello che preoccupa di più, secondo gli stessi dati, sono soprattutto le condizioni di “vulnerabilità” di molti disabili, la maggior parte dei quali ha una età superiore a 65 anni e vive nelle regioni del Mezzogiorno: tra gli over-65 il 42,4% vive da solo e non può contare sull’aiuto di un familiare, mentre tra gli over-75 solo un anziano su 10 è autonomo nella cura personale.


Il livello di istruzione per questo gruppo di popolazione risulta mediamente basso: il 70% dei disabili di età 45-64 anni ha al massimo la licenza media. Un altro diritto in parte disatteso è quello al lavoro: la percentuale di disabili tra 45 e 64 anni occupata è il 18%, contro il 58,7% della popolazione generale per la stessa fascia d’età. Inoltre, questo ultimo dato ha rilevato differenze di genere secondo cui risulta occupato il 23% degli uomini con disabilità e solo il 14% delle donne.


Tutto questo vogliamo considerarlo un peso, una zavorra per la nostra società “evoluta”?


La nostra società potrebbe trarre vantaggio dal relegare queste persone fragili e vulnerabili in fondo alla scala dei diritti umani? Oppure questo potrebbe rappresentare il rinnegare la straordinaria grandezza dell’uomo? Sacrificandosi, sostenendo il più debole, donando una parte del sé “umano” all’altro, si cade in basso? Oppure è un modo per innalzarsi al di sopra di tutto e di tutti?


La vulnerabilità non è una condizione che appartiene solo alle persone fragili, la vulnerabilità è una possibilità che qualunque essere umano può attraversare nel suo percorso di vita. L’umanità non si divide in forti e vulnerabili, l’umanità e fatta di persone forti del loro essere uniche, esclusive e irripetibili. Nel loro cammino di vita possono incontrare condizioni di benessere, di conflittualità, di amore, di odio, di forza e di fragilità, cosicché, l’essere vulnerabile, diviene una condizione della vita nella quale ogni uomo può trovarsi.


C’è’ bisogno di “un nuovo patto contrattuale” un patto sociale che riconosca la forza della vulnerabilità come elemento di crescita dell’altro, attraverso il prendersi cura della fragilità, come valore che ci migliora come esseri umani, consentendoci di uscire dalla logica di essere “i migliori. Dobbiamo cambiare paradigma: non più lottare per essere I MIGLIORI, ma sacrificarsi e lottare per essere “MIGLIORI”. La differenza sta nell’articolo, ma il significato sta nell’effetto che si produce. L’essere “IL MIGLIORE” porta quasi esclusivamente ad un vantaggio personale, mentre essere “MIGLIORI” senza l’articolo il, porta sicuramente ad un vantaggio non solo personale ma, anche e soprattutto, per il nostro prossimo. Questo concetto viene espresso in modo brillante nel libro “La forza di essere migliori” di Vito Mancuso.


La vulnerabilità è un valore


Al di là di ciò che si può pensare, la vulnerabilità è un valore. È un’altra faccia della realtà di noi esseri umani e, come tale, merita di essere accettata. Attraverso essa, non solo accogliamo l’altra parte del nostro universo emotivo, ma facilitiamo anche una connessione più intima, oltre che autentica, con tutto ciò che ci circonda.

È necessario avere una grande forza per permettersi di essere vulnerabili. In un mondo in cui la sicurezza, l’efficienza e la forza sono tanto apprezzate, chi osa lasciar cadere la sua armatura di apparente perfezione dimostra chiaramente un notevole coraggio. E questo modo di agire non mostra affatto una sconfitta o un atto di debolezza. Così ci si avvicina alla vulnerabilità di chi vive nella fragilità e la si comprende come valore, come leva.

La vulnerabilità è un valore; non è una mancanza di forza o di coraggio. È un altro lato del carattere umano. In sostanza, un’altra parte della nostra natura, che ci consente di essere più sensibili ai nostri bisogni e, contemporaneamente, di entrare in empatia con il dolore e le realtà emotive altrui.


Non siamo supereroi, siamo persone


Mario Benedetti (Poeta) affermava che la perfezione non è altro che una correzione accurata degli errori. Tuttavia, ammettiamolo, le persone non sono propense ad accettare gli errori, i fallimenti e i cambiamenti a volte imposti dal destino. In qualche modo, la società ci ha abituato a navigare in un universo ordinato fatto di apparenze, di maschere con le quali fingere risolutezza e buon umore anche quando dentro di noi palpitano le paure, i dolori e le ansie. Da un punto di vista culturale, la vulnerabilità emotiva e persino fisica ha da sempre un’importante contropartita, un vantaggio sociale che rafforza la crescita, in valore, dell’intera società.


L’equilibrio tra vulnerabilità e forza


È meraviglioso, ad esempio, mostrare le nostre capacità e abilità in determinate attività o sfide, è meraviglioso dimostrare quanto siamo bravi in una certa area di competenza. Tuttavia, ammettere che a volte non si può fare o sapere tutto è altrettanto accettabile. Questo può aiutarci nello slancio verso l’altro quando ha bisogno di aiuto.

Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo, né perdiamo valore nell’esprimere che la nostra forza convive con la nostra fragilità. Non c’è nulla di strano nel valutare il concetto di “abilità” in modo più appropriato: cos’è essere abile e cos’è non essere abile? Spesso mi è capitato di riportare le persone a valutare le abilità di alcuni nostri amici, conoscenti, rispetto alla loro capacità di operare in ambito digitale, comunicativo ed organizzativo, oppure nel saper suonare uno o più strumenti, o ancora di essere veramente bravi nelle relazioni o nello scrivere un libro e potrei continuare citando tanti altri esempi di persone diversamente abili. Per esempio, nel parlare le lingue, nell’uso di tecnologie etc…In contrapposizione alla loro mancanza di abilità nel correre o nel fare flessioni etc…Per contro molte persone non sono abili nella gestione del digitale, non sono abili nel cantare, nel suonare o nel parlare inglese, ma sono abili nel fare altre cose. Se vi dicessi di trovare i disabili e gli abili in questi esempi che ho descritto, cosa fareste? La disabilità è una condizione mentale, discriminante soprattutto, spesso in relazione ai diritti. A volte siamo duri verso gli altri e lo siamo anche verso noi stessi

La durezza di carattere, la personalità che fa uso di un atteggiamento duro e apparentemente infallibile, non raggiunge alcuna vetta nella vita. Quantomeno non in ciò che conta davvero: felicità, benessere, rispetto, convivenza. Nemmeno in ambito professionale sono più raccomandabili certe abilità basate sulla durezza, la risolutezza e l’implacabilità.

Al giorno d’oggi, è ormai evidente che aspetti quali sensibilità, empatia e vulnerabilità creano ambienti di lavoro migliori; si raggiungono accordi migliori e rendono più umano i contesti in cui ci muoviamo.


Brené Brown, professoressa e ricercatrice presso l’Università di Houston, afferma che la vulnerabilità è la culla dell’amore, dell’appartenenza, della gioia, del coraggio, dell’empatia e della creatività. Perché affermare che quando ci permettiamo di essere vulnerabili siamo imperfetti?

É triste chi non si è mai dato il permesso di esserlo. Chi non ha mai osato aprirsi a qualcuno per comunicare le proprie emozioni, sentire il dolore o la felicità altrui. Infelice è colui che è ossessionato dal mostrare sempre agli altri la propria competenza, la durezza del suo carattere, l’inflessibilità e l’incapacità di assumersi la responsabilità dei propri errori. E’ imprigionato in un copione dal quale non riesce ad uscire. Queste sono le dinamiche che mostrano imperfezione, ed è qui che si annida l’infelicità.

Nella società europea si va sempre più affermando il concetto di salute come chiave per lo sviluppo umano, sociale ed economico, come indicato anche da “Health 2020” (OMS, 2011), il modello di policy europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha come obiettivo per il 2020 il raggiungimento di standard di salute e benessere migliori e la riduzione delle disuguaglianze di salute, attraverso un’azione trasversale al governo e alla società.


Gli studi dimostrano che lo stato di salute di un individuo dipende non solo dalle variabili strettamente sanitarie (accesso all’assistenza medica, stile di vita), ma anche e soprattutto dalle cosiddette Social Determinants of Health, le determinanti sociali della salute. L’Italia non può esimersi da questo confronto. Lo studio ISTAT “La misurazione delle diseguaglianze nella mortalità per causa secondo il livello di istruzione. Anni 2012-2014”0, pubblicato nel 2016, mostra come in Italia lo svantaggio per titolo di studio in termini di tasso di mortalità abbia un gradiente che aumenta al diminuire del titolo di studio. Lo stesso vale per la speranza di vita. Già nel Piano Nazionale della Prevenzione 2014-2018, il Ministero della Salute ha identificato come necessario un approccio efficace e sistematico per affrontare la lotta alle disuguaglianze nello stato di salute. Per raggiungerlo, il PNP delinea un sistema di azioni che agiscano sull’intero ciclo di vita delle famiglie, e che garantiscano la trasversalità degli interventi tra i diversi settori, istituzioni, servizi, aree organizzative. La sfida italiana, dunque, è quella di tradurre in pratica questo approccio, al fine di essere all’altezza delle sfide che i sistemi di welfare si trovano oggi ad affrontare, quali l’innalzamento dell’aspettativa di vita, il progressivo invecchiamento della popolazione e la scarsità di risorse pubbliche. Per farlo, è necessario adottare un’ottica integrata, che superi il tradizionale approccio “a silos” degli interventi pubblici italiani, sia a livello finanziario che professionale, e che favorisca il raggiungimento di obiettivi di natura perequativa e di eliminazione della trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze.

Tra tutte le cose negative che questa pandemia ci ha portato, bisogna, alzando lo sguardo, individuare quelle cose che ci stanno aiutando a riflettere sui veri valori della vita, sulle cose veramente importanti. Il Covid ci sta dando la possibilità di rivedere alcune nostre convinzioni sulle priorità che dobbiamo darci. Questo è il momento per rivedere i nostri principi, i valori in cui credere, il reale significato della nostra esistenza. Lo stare insieme contrapposto alla solitudine, la profondità e la riflessione contrapposte alla superficialità, il successo contrapposto al valore, l’egoismo contrapposto all’aiuto del prossimo. La vulnerabilità, in un momento di emergenza sanitaria come quello che stiamo vivendo, ci porta a riflettere sul fatto di riconoscere come condizione discriminante la scelta della vita a favore dei più forti, oppure, rivolgere la nostra attenzione ed il sostegno proprio verso i più fragili i più vulnerabili. Questo sarebbe una possibilità di innalzarci ad un livello di “umanità” più rilevante, verso quel “significato dell’umano” che negli ultimi anni sembra essersi dileguato e diluito tra nuovi finti valori. Il mondo è fatto di uomini, non c’è nessuna divisione tra forti e vulnerabili. Quando avremo capito questo, ci avvicineremo a DIO.


Thomas Jefferson riguardo gli africani, considerati (erroneamente) inferiori per capacità intellettuali agli europei, ebbe modo di affermare che quale che fosse “il grado del loro ingegno, esso non è misura dei loro diritti”.

I Nuovi Modelli di Empatia

maggio 30, 2019by Digital FormedicaComunicazioneMedicina Narrativa

Una nuovissima ricerca del Max Planck Institute di Berlino e del Sante Fe Institute (Mafessoni & Lachmann, 2019) ha tentato di dare una risposta ad alcuni processi cognitivi legati all’empatia


Questo articolo è ripreso da State of Mind – il giornale delle scienze Psicologiche. Per visualizzare l’articolo originale, cliccare su questo link.


Due autori, in particolar modo, hanno tentato di spiegare quali siano i processi cognitivi che sottostanno ad una grande varietà di risposte empatiche negli individui, specificatamente si sono concentrati su:

  • Contagio emozionale;
  • Sbadigli contagiosi;
  • Patologie psichiche come la ecoprassia (ovvero la ripetizione compulsiva dei movimenti che un dato individui osserva negli altri) e la ecolalia (ripetizione compulsiva dei discorsi sentiti).

Secondo Fabrizio Mafessoni, ricercatore post-dottorato presso l’Istituto Max Planck per l’antropologia evolutiva, infatti, i modelli teorici standard delle origini dell’empatia tendono a focalizzarsi su scenari basati sulla cooperazione tra simili.

Mafessoni, e il suo co-autore Michael Lachmann, un biologo teorico e professore all’Istituto Santa Fe, hanno esplorato la possibilità che i processi cognitivi sottostanti un’ampia gamma di risposte empatiche – tra cui i tre processi soprammenzionati – potrebbe evolversi anche in assenza di meccanismi che mirano a favorire la cooperazione tra individui.

Secondo i due autori gli esseri umani, e più in generale tutti gli animali, possono mettere in atto dei comportamenti volti a stimolare le menti dei propri simili, il che non vuol dire che riescano ad entrare all’interno della mente degli altri, le quali restano impenetrabili come delle scatole nere. Più semplicemente i due ricercatori affermano che alcuni comportamenti vadano a stimolare a livello cognitivo le menti degli altri individui. Tali atti stimolativi non sarebbero quindi volti a un qualche tipo di cooperazione tra individui.


Empatia: i vantaggi


Tali comportamenti sono vantaggiosi per gli umani, in quanto permettono ai soggetti che osservano un individuo agire un dato comportamento (ad esempio ridere o sbadigliare) di poter inferire quale sia il suo stato mentale.

È proprio questo il motivo individuato da Mafessoni e Lachmann per spiegare come e perché evolva il sistema empatico in questione: l’origine dell’empatia non risiederebbe nella semplice spinta a cooperare ma andrebbe ricercata nel bisogno degli individui di comprendere gli altri esseri umani.

Il loro modello suggerisce che i sistemi empatici non si evolvono solo perché gli individui sono disposti a cooperare. Si evolvono anche perché gli animali simulano gli altri per immaginare le loro azioni. Secondo Mafessoni:

L’origine stessa dell’ empatia può risiedere nella necessità di comprendere gli altri individui.

Secondo i due autori il loro studio potrebbe cambiare completamente il modo di pensare l’essere umano e gli animali. Effettivamente il loro modello riesce nell’intento di unificare in un singolo meccanismo cognitivo una grande varietà di fenomeni empatici. Certo è che, però, saranno necessari ulteriori studi ed approfondimenti per poter validare maggiormente tale modello.


Questo articolo è ripreso da State of Mind – il giornale delle scienze Psicologiche. Per visualizzare l’articolo originale, cliccare su questo link.

Chi Siamo

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Formedica S.r.l, Provider Ministeriale n°157, è un’azienda dedicata, sin dal 2002, alla creazione di progetti formativi per lo sviluppo delle persone e delle organizzazioni in ambito medico-sanitario, industriale e sociale. Attraverso gli strumenti scientifici, comunicazionali, manageriali e dell’analisi dei fabbisogni, persegue gli obiettivi di qualità e di efficacia nella formazione in ambito sanitario.